Ninnillo e Nennella
Legge Roberto Luigi Mauri
Ninnillo e Nennella (Campania)
(da LO CUNTO DE LI CUNTI di Giambattista Basile)
Povero quell’uomo che, avendo dei figli spera, dandogli una matrigna, di trovare chi li accudisca. Invece, con lei porterà in casa lo strumento della loro rovina, perché non si è mai vista una matrigna che veda di buon occhio i figli di altri. Se per caso ne è stata trovata una, è necessario che quel giorno venga ricordato, perché la probabilità che si riverifichi è la stessa di quella di trovare un corvo bianco. Ora io, fra le tante matrigne di cui voi forse avete sentito parlare, vi racconterò di una che si può mettere nell’elenco delle matrigne più perfide, e voi, alla fine, la riterrete meritevole della pena che lei stessa si procurò pagandola a caro prezzo. C’era una volta un padre chiamato Iannuccio, che aveva due figli, Ninnillo e Nennella, ai quali voleva bene quanto alle sue pupille. Ma, avendo la morte, con la lima del tempo, fatto a pezzi le inferriate della prigione dell’anima della moglie, egli si risposò con una brutta arpia, cattiva come un vorace pescecane. Infatti lei, appena ebbe messo piede nella casa del marito, come un cavallo che vuol stare solo nella stalla, cominciò a dire: «Ma pensi che sono venuta a spidocchiare i figli degli altri? Proprio questo ci mancava, dovermi prendere la seccatura di vedermi attorno due rotture di scatole! Meglio che mi fossi rotta l’osso del collo, che venire in quest’inferno per mangiar male e dormir peggio, e per dover sopportare il fastidio di queste zecche! Questa è una vita di sofferenze! Io sono venuta come moglie e non come serva! È necessario mettersi d’accordo e trovare un posto per queste pittime, altrimenti me ne trovo io uno per me stessa! È meglio arrossire una volta che impallidire cento volte! Ora che ci siamo sposati indissolubilmente, sono proprio decisa ad averne benefici, altrimenti meglio rompere definitivamente». Il povero marito, essendosi un po’ affezionato a questa donna, le disse: «Non andare in collera, moglie mia. Dato che la pace vale molto, domattina, prima che il gallo canti, ti leverò questo fastidio da torno». Così, la mattina dopo, Iannuccio, con infilato al braccio un bel paniere di cose da mangiare, prese per mano i due figli e li portò in un bosco, dove un esercito di pioppi e di faggi stringevano d’assedio le ombre. Giunto lì, disse: «Bambini miei, rimanete qui a mangiare e bere allegramente. Vedete questa striscia di cenere che vado seminando? Se doveste avere bisogno di qualcosa, quella sarà il filo che, guidandovi nel labirinto del bosco, vi porterà passo passo a casa vostra». Poi, dato loro un bacio per uno, se ne tornò piangendo a casa. Ma, giunta la Notte, i due fanciulli ebbero paura di stare in quel luogo deserto e s’avviarono pian piano per quel sentiero di cenere ed era già mezzanotte quando, a piccoli passi, arrivarono a casa. Pascozza, la matrigna, nel vederli, non fece cose da persona umana ma da furia infernale e, innalzando strilli al cielo, sbattendo mani e piedi, e ansimando come un cavallo imbizzarrito, disse: «Che bella cosa è questa? Da dove sono rispuntati questi mocciosi, queste zecche? È possibile che non ci sia modo di farli scomparire da questa casa, come fa l’argento vivo con l’oro? È possibile che tu ce li voglia tenere per dispetto del mio cuore? Vai, levameli subito da davanti agli occhi, perché non voglio nemmeno aspettare il canto dei galli e il chiocciare delle galline. Se non lo fai puoi toglierti dalla testa che io dorma più con te e, domani mattina, me ne fuggo a casa dei parenti miei, perché tu non mi meriti! Non ti ho portato in casa tanti bei mobili per vederli insozzati dalla puzza dei sederi altrui, né ti ho dato una dote così abbondante per essere schiava di figli non miei». Il povero Iannuccio, vedendo la barca indirizzata male e la situazione diventare incandescente, in quello stesso momento prese i bambini e, tornato nel bosco, diede ai figli un altro panierino con qualcosa da mangiare, dicendo loro: «Figli miei, vedete voi stessi quanto vi detesta quella cagna di mia moglie, che è venuta nella casa mia per la rovina vostra e per far soffrire questo cuore. Perciò restatevene in questo bosco, dove gli alberi, più pietosi di lei, vi faranno da riparo contro il sole; dove il fiume, più caritatevole, vi darà da bere senza avvelenarvi; dove la terra, più cortese, vi offrirà pagliericci d’erba senza pericoli. Comunque, nel caso vi dovesse mancare da mangiare, io faccio un tracciato di crusca e voi, seguendolo, potrete venire a chiedere aiuto». Ciò detto, per non avvilire quelle povere creature facendosi vedere piangere, girò il viso dall’altra parte. I due, appena ebbero finito il contenuto del panierino, avrebbero voluto tornare a casa, ma un asino, figlio della cattiva sorte, s’era leccata tutta la crusca sparsa per terra, per cui sbagliarono strada. Per un paio di giorni andarono errando per il bosco, nutrendosi di ghiande e di castagne che raccattavano da terra ma, poiché il Cielo stende sempre la sua mano sugli innocenti, capitò a caccia, in quel bosco, un principe. Ninnillo, sentendo l’abbaiare dei cani, ebbe tanta paura che si nascose nel cavo di un albero, mentre Nennella prese una tale fuga che, uscita dal bosco, si trovò su un lungomare dove erano sbarcati certi corsari per far legna. Il loro capo, trovatala, se la portò a casa, dove la moglie, essendole morta da poco la sua bambina, se la tenne come figlia. Intanto, Ninnillo, che era rannicchiato in quella corteccia d’albero, fu attorniato dai cani che cominciarono ad abbaiare tanto forte che il principe volle vedere che cosa fosse. Trovato quel bel bambino, tanto piccolo da non saper dire come si chiamavano il padre e la madre, lo mise sul cavallo di un cacciatore e lo portò a palazzo reale. Con la solerzia di buone governanti lo fece crescere virtuoso e, tra le altre cose, gli fece insegnare l’arte di tagliare le pietanze a tavola. Dopo meno di tre o quattro anni, egli divenne così bravo, da riuscire a dividere il capello. In quel frattempo, essendosi scoperto che il corsaro che aveva accolto Nennella era un ladrone di mare, lo vollero mettere in prigione. Egli, però, essendo amico degli scrivani del tribunale perché li corrompeva, se ne fuggì con tutta la sua famiglia. Forse fu la giustizia del Cielo a volere che egli, avendo commesso i suoi imbrogli sul mare, sul mare ne pagasse la pena. Infatti, essendosi imbarcato sopra una barca leggera, appena fu in mezzo al mare, venne una raffica di vento e una tempesta di onde, tali che la barca si capovolse e tutti affogarono. Solo Nennella, che non aveva colpa di quei ladrocini, scampò al pericolo perché, in quel momento, si trovò presso la barca un grande pesce fatato che, spalancando la grande voragine della sua bocca, la inghiottì. Ma proprio quando la giovane credette di aver raggiunto la fine dei suoi giorni, proprio allora si dovette ricredere perché nel ventre di quel pesce trovò cose meravigliose. C’erano campagne bellissime, giardini magnifici, e una casa da signori con tutti le comodità, dove lei stette da principessa. Un giorno, Nennella fu portata di peso da quel pesce su uno scoglio dove, essendo la più afosa e più calda giornata dell’estate, anche il principe era venuto a prendere il fresco. Intanto, poiché si stava preparando a palazzo un gran banchetto, Ninnillo s’era messo su un balcone che si affacciava su quello stesso scoglio ad affilare certi coltelli, indugiando molto nel suo compito per farsi onore. Nennella, dal fondo della bocca del pesce, lo vide e subito lanciò un triste lamento: «Fratello, fratello mio! I coltelli sono affilati, i tavoli sono preparati, ma a me la vita rincresce, senza te, dentro a stò pesce!» All’inizio Ninnillo non fece attenzione a queste parole, invece il principe, che stava su un altro balcone, voltatosi a questi lamenti, vide il pesce. Poi, udendo un’altra volta le stesse parole, uscì fuori di sé per lo stupore e inviò alcuni servitori per vedere se in qualche modo potessero ingannare il pesce e tirarlo a terra. Alla fine, sentendo sempre ripetere quel ricorrente «Fratello, mio fratello!», domandò a tutte le persone della sua corte, ad una per una, se qualcuno avesse perduto la sorella. Ninnillo rispose che ricordava, ma come in un sogno, che quando egli lo aveva trovato nel bosco, aveva con sé una sorella, della quale non aveva saputo più nulla. Allora il principe gli disse di accostarsi al pesce e di vedere che cosa fosse, perché forse quel richiamo era destinato a lui. Appena Ninnillo si fu avvicinato al pesce, questo subito posò la testa sullo scoglio e, spalancando i sei palmi della sua bocca, lasciò uscire Nennella. Lei era tanto bella da sembrare una Ninfa che usciva da quell’animale, per l’incantesimo di un mago. Avendo il re domandato come tutto ciò fosse successo, lei gli accennò parte delle loro sofferenze e dell’odio della matrigna, ma non riuscivano a ricordarsi né il nome del padre né il luogo dov’era la loro casa. Per questa ragione il re emanò un bando con cui ordinava, a chi avesse perduto in un bosco due figli chiamati Ninnillo e Nennella, di andare al palazzo reale perché ne avrebbe avute buone notizie. Iannuccio, che era sempre triste e sconsolato, perché credeva che i figli fossero stati divorati dai lupi, corse con grande felicità dal principe per dirgli che proprio lui aveva smarrito i fanciulli. Avendogli, poi, raccontato la storia di come fosse stato costretto a portarli nel bosco, il principe gli fece un bella partaccia, chiamandolo pecorone e uomo da poco, e lo rimproverò per essersi fatto mettere i piedi in testa da una femmina tanto da portare a sperdere due gioielli, com’erano i suoi figlioli. Però, dopo che gli ebbe rotto la testa con queste parole, vi mise sopra l’unguento della consolazione, mostrandogli i figli che egli, per più di mezz’ora, volle abbracciare e baciare. Poi il re, fattigli levare di dosso i suoi poveri abiti e fattolo rivestire da gentiluomo, fece chiamare sua moglie. A questa, dopo averle additato quelle due piume d’oro dei figliastri, domandò quale pena avrebbe meritato colui che avesse fatto loro del male e li avesse messi a rischio di morire. Lei rispose: «Per me, lo metterei chiuso in una botte e lo rotolerei dalla cima di una montagna». «Ecco, questo avrai», disse il re: «La capra ha rivolto le corna contro se stessa! Orsù: poiché tu hai stabilito la sentenza, tu la pagherai, avendo avuto così tanto odio per questi tuoi bei figliastri». Detto questo, diede ordine che fosse eseguita la sentenza che lei stessa si era data. Poi, trovato un gentiluomo suo vassallo molto ricco, lo diede in sposo a Nennella, e diede la figlia di un altro vassallo al fratello, con una dote e rendite sufficienti per vivere, insieme al padre, senz’aver bisogno di nessuno al mondo. Intanto, la matrigna, infasciata in una botte, sfasciò la propria vita gridando sempre, finché le restò fiato in gola: Tarda il castigo, ma guai a chi lo merita. Poi ne arriva uno pesante che fa pagare tutto!